La caratteristica principale della sua arte è la ricerca sulle potenzialità della materia, che regna sovrana nel suo lavoro. Le sue opere non presentano virtuosismi né dimostrano autocompiacimento, mirando a trovare l’opera vera attraverso quella materia scabra e dura, potente e pressante che sembra quasi spingere fuori con prepotenza gli elementi che compongono il quadro.
Questa nuova edizione di "La notte lava la mente" mette a confronto alcuni ritratti del progetto dedicato ai “dimenticati”, che suscitò già nel 2015 l’interesse di Sgarbi per il suo “Museo della Follia”, con le ultime creazioni di Baldini, volte ad indagare l’identità di genere e la ricerca di sé al di là dei ruoli e delle appartenenze.
“L’opera si apre e c’è un vuoto che si scioglie – ha evidenziato a questo proposito Flavia Zoli - e attraverso una crepa, uno strappo, traduce il conflitto interiore che marca il dinamismo tra l’habitus ed il meccanicismo dell’abitudine, così da rendere la struttura strutturata permeabile alle soluzioni imprevedibili ed innovative”.
Nato a Forlì nel 1960, Vincenzo Baldini inizia la propria carriera artistica allestendo, giovanissimo, la prima personale a XC Pacifici di Forlì nel 1983. Da allora ha curato personali e partecipato a collettive in molte città in Italia (Bologna, Cesena, Ferrara, Bolzano, Roma) e all’estero (Innsbruck, Londra e Berlino). Ha partecipato a varie collettive tra cui Rich in occasione di Artefiera 2011. Sempre nel 2011 è stato selezionato per il Padiglione Emilia Romagna della LIV Biennale di Venezia con sede a Reggio Emilia.
7 marzo 2020 - 29 marzo 2020 Gli strumenti di Violino d’Autore nascono come violini professionali di alta liuteria, diventano opere d’arte e, infine, ritornano a essere strumenti musicali. Ogni strumento è realizzato artigianalmente ed è un unicum. L’originale progetto, della liutaia Ezia Di Labio, finalizzato alla valorizzazione della liuteria bolognese,mestiere di antiche tradizioni in equilibrio tra arte e artigianato, per la prima volta trasforma la funzione esclusivamente musicale degli strumenti, facendoli dialogare e contaminare con altre forme d’arte e di comunicazione. Gli artisti invitati a intervenire liberamente sul violino, provenienti dalle più diverse discipline, si sono espressi con la loro identità creativa, realizzando uno strumento unico e prezioso, che ha in sé il poeta, il pittore, l’attore, il compositore, lo scrittore, lo scenografo, lo storico dell’arte, il cantante e molti altri ancora: lo strumento classico è stato trasformato in opera d’arte, senza cambiarne forma né suono. La mostra è la conclusione naturale di un’esperienza che, rispetto al mondo della liuteria, è da leggersi come un processo di trasformazione, di arricchimento, di dialogo tra le arti. Il violino decorato diviene opera d’arte sonora, che durante la mostra verrà utilizzata per la sua funzione primaria: produrre musica.
Leggi di più7 dicembre 2019 - 5 gennaio 2020 Più della pittura e della scultura, la ceramica coinvolge le potenzialità conoscitive del corpo. Plasmare è pensare con i polpastrelli, indagare con l’affondo delle dita nell’argilla, contemplare con le braccia che sostengono e orchestrano un microcosmo. Ma questo confronto corpo a corpo per Mattia Vernocchi è stigmatizzato da un concetto, è segnato da una constatazione di un presente scabro e industriale che rende più astratto e concettuale ciò che è antico, arcaico, primordiale, originario. L’imagery dell’artista è crocifissa a reti intessute di ferro e profilati di metallo, gli oggetti non sono semplicemente dati, o raccolti, ma ripensati. Vernocchi ricostruisce letti abbandonati, popola gabbie nude, edifica ruvide nicchie che assomigliano a fogli accartocciati, trasforma in canto i residui, li solleva in una dimensione di sogno lucido, per gettare uno sguardo oltre la desolazione in cui ogni cosa è sospesa senza più senso.
Leggi di più26 ottobre 2019 - 24 novembre 2019 Servendosi dei quattro elementi della fisica e infondendo in essi il pneuma artistico, le opere in argilla rappresentano l’antica nozione dell’arte che redime la materia attraverso la forma. Se “il corpo è come un vaso”, così Luca Freschi rintraccia nella materia fittile la sua fonte primaria, declinata in un linguaggio plastico che rilegge e reinventa il patrimonio della tradizione secolare attraverso la predilezione per la terracotta e la ceramica, vocazione scultorea che è prevalsa dopo il suo iniziale apprentissage pittorico. In particolare, la ceramica si è rivelata per l’artista un ponte tra poetiche e prassi progettuali che consentono di restituire l’aleatorietà della materia e dell’esistenza umana. Avvalendosi di una tecnica che ibrida la pittura alla scultura, l’interdisciplinarità dell’artista fa leva sulle contraddizioni. Luca Freschi (1982), laureato presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna “sezione Pittura”. In questi anni di lavoro ha intrapreso una ricerca basata sull’alterità della figura umana, sulla memoria personale e collettiva tramite l’utilizzo della tecnica del calco. Ha partecipato a varie esposizioni collettive e personali in Italia e in Europa. Vive e lavora a Meldola (FC).
Leggi di più4 maggio 2019 - 2 giugno 2019 Ceramica, rame, ferro e altri materiali cominciano a interagire nell’impasto della creatività, dando vita a un linguaggio dall’impronta femminile più recondita, poi tradotta in forme senza tempo: figure totemiche, dee madri, alberi, guerrieri, tavole dell’accoglienza; accanto a mele, melagrane, aironi, canneti, design di arredi per interni, rimandi etnici, segni e simboli di millenarie culture. Patrizia Garavini nasce a Forlì e dopo la maturità scientifica e i primi approcci lavorativi, si trasferisce a Bologna nel 1987. A partire dal 1997 espone in mostre collettive e personali, tiene corsi di formazione ceramica nelle scuole e nel proprio atelier. Organizza eventi culturali in studio, in collaborazione con Associazioni ed Enti pubblici.
Leggi di più6 aprile 2018 - 28 aprile 2019 Massimo Missiroli, esperto di didattica dell'immagine, lavora da anni come consulente di scuole e biblioteche, curando anche la pubblicazione del volume “Prima dei Lumière: un percorso didattico nella storia del cinema”. Nel 1991 ha inizio la sua ricerca/produzione nel campo dei libri pop-up e tridimensionali realizzando, come paper-engineer, alcuni progetti proposti a diverse case editrici. La sua raccolta di questo genere di libro è una delle più importanti in Italia.
Leggi di più2 marzo 2019 - 31 marzo 2019 “Le Chapeau” è un’azienda artigianale forlivese che dal 1990 produce cappelli di ogni genere e accessori (stole, sciarpe, borse, articoli d’abbigliamento mare e cocktail) collaborando con firme e maisons prestigiose grazie alla capacità di coniugare “qualità” e “idea”: elevata qualità dei materiali e autentica ispirazione artistica in ogni creazione. I suoi prodotti si caratterizzano per la realizzazione interamente manuale, con l’uso delle tradizionali forme in legno che hanno fatto la storia del cappello, con la lavorazione dei tessuti e con la grande varietà degli stili e delle versioni – dall’alta moda al pret-à-porter, dal genere classico all’estroso – arricchiti di particolari per dare “quel tocco” che fa la differenza. Patrizia Valmori con la sua équipe ha potuto mantenere vivo il meglio della tradizione “Made in Italy” di tipo artigianale, senza escludere le esigenze della modernità e delle nuove tendenze, e senza rinunciare ad esprimere una propria “visione” o “interpretazione” del cappello.
Leggi di più15 dicembre 2018 - 13 gennaio 2019 Il mosaico si libera dai rigidi formalismi della sua tradizione per aprirsi a reinvenzioni che ne ampliano il perimetro d’azione. Il bacino iconografico cui attinge per il suo immaginario è la cultura visiva contemporanea, forgiata e veicolata dai media digitali e in bilico tra arte, attualità giornalistica e cinema, tra film d’essai e b-movie, grafica, fotografia, fumetti, animazioni. Elementi che interrogano, nella sua ricerca più recente, il complesso rapporto tra genere umano e natura. Luca Barberini, nato a Ravenna nel 1981, si forma artisticamente nel contesto di una città che deve al mosaico paleocristiano e bizantino gran parte della sua fama nel mondo e di questo contesto ne raccoglie e ne trasforma l’eredità. Si diploma presso l’Istituto Statale d’Arte Gino Severini nel 1999, prosegue il suo percorso formativo con esperienze sul campo e, poco dopo, fonda con Arianna Gallo lo studio Koko Mosaico.
Leggi di più10 novembre 2018 - 8 dicembre 2018 Una mostra interamente ed originalmente dedicata al cinema d’animazione dall'evocativo titolo "Costruttori di sogni", curata da Francesco Selvi e centrata sul lavoro di Christoph Brehme (1982), Magda Guidi (1979) e Silvia Selvi (1975): un viaggio dietro alle immagini, la scoperta del lavoro celato dal singolo fotogramma destinato a scivolare davanti ai nostri occhi. In compresenza ai set e alle opere, verranno proposti i film d’animazione dei tre artisti, così da illuminare le connessioni e la magia che legano la dimensione concreta con quella fantastica delle loro animazioni.
Leggi di più13 ottobre 2018 - 4 novembre 2018 La mostra é un ensemble di opere d'arte, sculture, bozzetti e dipinti dell'artista che trasporta in una dimensione oltre il reale, oltre a quella che l'uomo già conosce, senza limiti nell'infinito spazio temporale tra scienza e superstizione e dove l'immaginazione diviene l'unica chiave di lettura possibile. Delio Piccioni é artista designer che si diverte a rendere reali le illusioni e percorre i liberi sentieri della fantasia, lavorando con ironia ed ingenuità ma anche con una profonda conoscenza ed un concreto sapere costruttivo.
Leggi di più26 maggio 2018 - 24 giugno 2018 Quando al pane si attribuisce l’iconografia della forma umana, quest’ultima ne incarna i simboli e li rende vivi: l’insieme dei valori simbolici e terreni che attribuiamo ad entrambi (il pane e l’uomo) diventando un’unica cosa. Ne scaturisce una rappresentazione emblematica dell’essere umano nella quale il misticismo che tende ad elevarsi verso l’alto, attraverso l’offerta del corpo, si incontra con l’inevitabile conflittualità dell’esistenza effimera di ogni cosa. Matteo Lucca nasce a Forlì nel 1980. Laureato presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna, nel 2004 si presenta al Premio Campigna 47° edizione, overture numero 0, Santa Sofia (FC) e nello stesso anno vince il 1° premio al concorso la vita intesa come rinascita, indetto dall’A.U.S.L. di Ferrara. Realizza un opera in bronzo dal titolo Autoforia, collocata nel parco dell’ospedale di Bondeno (FE). Nel 2007 realizza il complesso scultoreo dedicato ai donatori si sangue dell’A.V.I.S. intitolato Testimoni dell’impronta, collocato presso l’Ospedale Pierantoni Forlì. Spesso é invitato nelle fiere d’arte contemporanea di più alto prestigio.
Leggi di più14 aprile 2018 - 13 Maggio 2018 Attraverso un esasperato quanto lucido groviglio di fili e di pensieri, di sentimenti e di emozioni, osserva e invita noi a fare lo stesso, figure di donne, di mistiche che nel loro rapporto con il divino hanno portato all’eccesso o all’esasperazione la loro esperienza trascendente. Maria egiziaca, la cui esistenza si perde in una narrazione tanto ardita quanto leggendaria di una vita di mortificazione nel deserto, e Rosa da Lima, dal cuore totalmente dedito all’amore alto nella ricerca di una sofferenza capace di espiare il male dell’uomo, rivivono nei volti, nei corpi e nelle espressioni di due donne a noi contemporanee. Lucia Nanni, vive e lavora a Ravenna. Ha studiato filosofia, costruisce abiti, disegna con la macchina da cucire, ama insetti, volti, corpi e viaggi onirici. Nel 2016 dopo 4 anni di lavoro porta a termine un lungo progetto dal titolo Lacrime, 240 volti anonimi: lavoro condensato in un catalogo edito da Longo Editore. Nel 2017 inizia un altro lungo studio tra isteria e misticismo, presentando a Rimini la prima Annotazione sulla religiosità selvaggia di Maria Egiziaca.
Leggi di più3 marzo 2018 - 4 aprile 2018 Protagonisti le opere in vetrofusione, ovvero a quella particolare tecnica artistica che prevede la fusione e l'incorporazione di vetri diversi (e più raramente di sostanze coloranti) per far assumere al vetro forme e cromìe uniche ed originali. Forme e cromìe che hanno convinto artisti del mondo della moda come Armani e Ferrè e che l'hanno portata a collaborare con Moschino, per cui ha ideato e realizzato dei bottoni gioiello. Per la mostra forlivese Daniela Poletti ha coinvolto nell'allestimento lo stylist Andrea Merendi che ha messo in dialogo la fragilità inflessibile del vetro con quella cedevole dei fiori di carta crespa, creando un percorso affascinante ed inedito. Daniela Poletti Zino, piemontese di nascita, dopo gli studi in pedagogia matura la decisione di dedicarsi all’arte del vetro: segue diversi corsi di glass fusing tenuti da docenti tedeschi e americani, specializzandosi nelle tecniche di lavorazione artigianale. All’inizio degli anni Novanta, le prime sperimentazioni, all’insegna di inventiva e creatività, danno vita a una collezione di fiori e piante grasse in vetro che si rivela subito un successo. Pochi mesi dopo, espone i primi complementi di arredo al Salone del Mobile di Milano. Nel 1992 parte l’avventura di Vetrofuso che, nei suoi vent'anni di vita, ha servito grandi marchi, distributori e stilisti famosi, esportando il suo nome, il concetto di Made in Italy in tutti e cinque i continenti.
Leggi di più27 gennaio 2018 - 17 febbraio 2018 In occasione delle festività della Madonna del Fuoco le sale espositive di Arte al Monte, ospiteranno come di consueto una mostra dedicata all'arte sacra. Quest'anno in particolare la mostra sarà incentrata sul rapporto tra arte e devozione, che trova una delle sue espressioni più alte nelle icone, ovvero nelle raffigurazioni sacre su tavola ispirate all'arte bizantina. A curare l'esposizione, realizzata in collaborazione con il Museo Interreligioso di Bertinoro, una delle massime studiose italiane di icone, Paola Cortesi.
Leggi di più2 dicembre 2017 - 14 gennaio 2018 La mostra allestita negli spazi del Monte di Pietà raccoglie tre installazioni distinte realizzate in tre momenti storici ma caratterizzate da una radice comune: lo scarto e le sue emanazioni. La prima è formata da tre audio vetrine dal progetto Emporio 996 del 2009 dedicato alla ex corderia di Viserba di Rimini. Tre porzioni di muro parlanti (Sonoro interno) fanno parte della seconda installazione, dedicata e realizzata nel 2016, per la casa di Goffredo Parise a Salgareda. Una costellazione di megafoni sorgono da un cumulo di macerie al centro della sala per narrare una storia: è il nuovo lavoro pensato per gli spazi del Monte di Pietà, sede della mostra. Un installazione realizzata in stretta collaborazione con Christian Mastroianni, compositore e sound artist, nella trascrizione di una narrazione sonora dedicata. (Macerie 2017) Claudio Ballestracci, classe 1965, vive e lavora a Longiano, in Romagna. Il cuore della sua ricerca consiste nel vivificare il fattore apparentemente inerte della materia attraverso processi tecnici elementari: la luce, l’elettricità, la simbiosi alchemica con elementi composti e naturali. L’oggetto ritrovato è la materia prima per elaborare l’immagine, così come un luogo o un edificio sono fonte di ispirazione originaria. Ha esposto in Italia e all’estero. Vigile esploratore di storia e storie della cultura, con una predilezione per il mondo del libro, ha progettato e allestito esposizioni temporanee e permanenti interne ai musei. Autore di scenografie e progetti in ambito teatrale, si occupa anche di architettura attraverso proposte che vertono sul rapporto poetico fra natura e paesaggio, luce e ambiente.
Leggi di più21 ottobre 2017 - 19 novembre 2017 Il critico d’arte e giornalista Rai Raffaele Nigro così lo descrive: «L’immaginario poetico di Vito Matera fa i conti con le esperienze culturali e le figurazioni fantasiose del barocco meridionale di cifra colta. C’è in Matera il bisogno di costruire per sintesi successive un figurativo simbologico che racconti la sua provenienza etnica, la sua formazione intellettuale, oltre che le avventure quotidiane del conscio e dell’inconscio. Matera ha bisogno di proiettare le creature e le architetture naturali del paesaggio e gli oggetti della nostra contemporaneità in un tempo remoto, indecifrabile, un’età metastorica, una non-età, fino a creare ambienti e situazioni metafisici. Tuttavia questa di Matera non mi sembra una pittura di citazioni, soprattutto perché la seconda componente è il colore, un pastellato che sa di scrostature, di tempere e calce. L’allontanamento dai simboli ha prodotto un’ovvia consistenza della materia. Toccali se vuoi, questi quadri, hai una sensazione di bucciato rustico, sono muri di calce e gesso, i muri bianchi dei paesi di tufo». Vito Matera nasce a Gravina in Puglia nell’agosto del 1944, studi classici e laurea in Filosofia, con una tesi in Estetica sui problemi dello spazio pittorico. La sua vicenda artistica parte da un mondo classico con il ciclo delle Deliadi, in cui prende le distanze dalla diffusa immagine di un Sud dolente e lacrimevole per recuperarne una identità fantastica e culturale. Nel 1983, dopo un’esperienza che lo porta a esporre nei Balcani, aderisce al gruppo barese di “Fragile” con Angiuli, Dell’Aquila, Nigro e Riviello: nasce un dialogo virtuoso in cui si conferma la relazione programmatica con le matrici formali dell’immaginario mediterraneo e si consolida la sua affinità col mondo letterario. Dal 1988 inizia una collaborazione mensile con “La Gazzetta Del Mezzogiorno” e con riviste di letteratura militante come “In/Oltre”, “Fogli di periferia”, “Puglia Emigrazione”, “Tarsia”, “Il Rosone”. In questa atmosfera si consolida la sua affinità col mondo letterario che gli consente nel 1995 un’incursione nella scenografia per il “Premio Ugo Betti”. In un mondo prevalentemente orientato verso i poli dell’arte concettuale, urbanocentrica e tecnocratica, la sua ricerca prosegue in chiave antropologica stemperata da un linguaggio poetico e giocoso.
Leggi di più6 maggio 2017 - 4 giugno 2017 "Le installazioni e sculture di Ana Hillar ci invitano a partecipare a qualcosa di più grande, che va oltre i suoi spazi espositivi, oltre il confine dell’opera. Spettatori chiamati ad interagire, a riflettere ed esplorare al di là dell’apparenza e di ciò che lo sguardo distratto potrebbe cogliere. Dal titolo si comprende subito come quello di Ana sia un lavoro che sprigiona una forte energia poetica senza bisogno di artificiosi espedienti. Nata come scultrice ceramica, Ana ha studiato i più diversi mezzi di espressione per usarli senza vincoli ed essere artista nel senso più contemporaneo del termine: quello per cui è finalmente decaduta la necessità o l’importanza di fornire classificazioni di metodo alle opere. Ana anima il suo progetto con un insieme variegato di mezzi: riunisce i materiali e le tecniche a lei care – come la ceramica, il disegno, le fibre tessili (ovatta) e la plastica – attraverso sovrapposizioni eterogenee di modi di lavorare, che attraverso la pratica quotidiana trovano l’esattezza del loro uso. Nel tentativo di comunicare attraverso l’assoluta semplicità, l’artista, in occasione di questa personale dispone istallazioni quasi prive di peso, i cui volumi sono filtrati attraverso l’intensità del colore bianco. Sono opere dal minimalismo immediato, pervase visivamente e fisicamente di pura poesia, (espressa formalmente nella fragilità e precisione dei materiali). L’interiorità del bianco ha la capacità di tessere un rapporto intimo e riservato, interrogarci in merito alla nostra identità, facendo emergere sentimenti e paure contrastanti di fronte alle quali appariamo piccoli, indifesi, protetti solo da noi stessi. In attesa che l’ombra del crepuscolo sveli ciò che non vediamo con la luce del giorno. Sono opere dotate di una forza nascosta, sottese da una tinta che, per sua natura, ha corrispondenze nell’immateriale, nello spirituale, e capaci di catturare l’attenzione dello spettatore, per poi puntare dritto al loro cuore. Per questo richiedono cautela davanti alla loro delicatezza e fragilità: basterebbe un soffio a distruggerle, reali o apparenti che siano. Il tempo è un elemento essenziale, tangibile, tanto che, operando con estrema concentrazione e pacatezza, il lavoro può viverne uno tutto suo, particolare, coincidente con lo spazio dell’opera. Così oggi, in un’epoca palesemente frenetica, in cui pare che nessuno voglia fermarsi a cercare di capire ed approfondire il proprio pensiero, l’azione di Ana Hillar appare puro controsenso, o meglio, una purezza-contro-il-sistema. C’è una dimensione narrativa in queste opere, raccontate da Ana come fossero preghiere, da ascoltare prima che da guardare, capaci di penetrare (inconsciamente) istantaneamente i misteri della vita e offerte nella speranza di un futuro migliore." - Viola Emaldi Ana Hillar nasce a Santa Fe, Argentina nel 1969. Frequenta l’Accademia di Belle Arti di Santa Fe, prima di laurearsi inizia a viaggiare per il Sudamerica. Nel 1995 arriva in Europa invitata dallo scultore tedesco Franz Sthaler, in Italia incontra un gruppo di artisti Bolognesi e li si stabilisce. Nel 1997 torna in Argentina per dare la tesi dell’Accademia, e nel 1999 ritorna in Italia. Da allora vive e lavora a Faenza, partecipando a mostre italiane e straniere. Le sue opere fanno parte delle collezioni dei seguenti musei: Museo Internazionale della Ceramica (Faenza, Italia), Museo Civico Della Ceramica (Nove, Italia), Museo Rosa Galisteo de Rodriguez (Santa Fe, Argentina), Palace De Glass (Buenos Aires, Argentina), Museo Nazionale d'Arte (Il Cairo, Egitto), Museo della Città (Nasice, Croazia).
Leggi di più25 marzo 2017 - 23 aprile 2017 Fino agli anni ’60 la Corea del Sud era un paese povero e arretrato. In meno di mezzo secolo è diventato uno dei paesi più moderni al mondo. La rincorsa alla modernità e al progresso è stata realizzata imponendo alla società uno smisurato senso della competizione, nella ricerca della perfezione dal punto di vista scolastico, professionale ed estetico. Ai giovani vengono imposte le stesse tappe obbligatorie: per essere riconosciuti socialmente è fondamentale ottenere i migliori voti per accedere ai migliori istituti che consentiranno di arrivare ai migliori lavori. Al tempo stesso sono richiesti modelli estetici uniformi, spesso senza identità, raggiunti comunemente con la chirurgia plastica. I giovani sono così spinti verso una standardizzazione straniante e surreale, l’esatto contrario di quanto avviene in molti paesi occidentali, dove il successo è raggiunto distinguendosi dalla massa. Tutto questo ha fatto emergere forti effetti collaterali come lo stress, l’alcolismo, l’isolamento sociale e un elevato numero di suicidi (il paese è tra i primi posti nella classifica mondiale dei suicidi: 43 al giorno). Il progetto Made in Korea è composto da 41 fotografie complessive; è disponibile in ebook, edito dalla casa editrice Emuse. L'ebook contiene inoltre due testi critici di Silvia Camporesi e Davide Grossi. Questo progetto è stato esposto in Italia e all'estero, in particolare: Alla Somerset House di Londra, al Sony Square di New York, allo Spazio Tadini di Milano e allo U Space di Pechino, a seguito del premio ricevuto ai Sony World Photography Awards. Al MACRO - Museo d'Arte Contemporanea di Roma, in quanto selezionato nell'ambito del progetto Emerging Talents. Al Foro Boario di Modena, in quanto selezionato come Nuovo Talento di Fondazione Fotografia Modena. A Kaunas, come autore selezionato nell'ambito del Kaunas Photo Festival. Al CIFA - Centro Italiano della Fotografia d’Autore di Bibbiena. Filippo Venturi (Cesena, 1980) è un fotografo documentarista. Si occupa di lavori fotogiornalistici e commerciali su commissione. Collabora con diverse agenzie, sia in Italia che all'estero, per campagne pubblicitarie. Si dedica inoltre a progetti personali su temi, storie e problematiche che ritiene interessanti da approfondire. I suoi lavori sono stati pubblicati su diversi magazine e quotidiani come: The Washington Post, Die Zeit, Internazionale, La Stampa, Geo, Marie Claire, Vanity Fair, Gente, D di Repubblica, Io Donna del Corriere della Sera.
Leggi di più25 febbraio 2016 - 19 marzo 2017 L'artigianato di alto livello merita una esposizione ad Artelmonte. Come nelle nostre intenzioni progettuali, oltre al mondo dell’arte è necessario raccontare altre forme di cultura. Abbiamo scelto una realtà forlivese che opera da molto tempo nel settore del ricamo dedicato a prodotti di alta gamma. Grande abilità coniugata con la più innovativa tecnologia hanno permesso all'azienda Arte e Ricamo di mantenere una posizione di rilievo nel mondo della moda italiana ed internazionale. Questa mostra sarà l'occasione per conoscere una storia tutta al femminile, donne che hanno saputo coltivare un sogno. Vedrete la magia di abiti e accessori che solitamente rimangono chiusi nello sterminato archivio che nel tempo l'azienda ha accumulato. Arte e Ricamo, azienda leader nel settore del ricamo fondata nel 1973, è una longeva realtà imprenditoriale forlivese a conduzione familiare tutta al femminile. Sono ben quattro le generazioni coinvolte nello sviluppo dell'azienda, dalla sua ispiratrice, la sarta forlivese Velia Sansovini (1910-1963) artista meritevole di aver trasmesso alla figlia Dina Sbaragli la sapiente manualità sartoriale da essa poi affinata nell'arte del ricamo a mano e a macchina, dalla tenera età di quattordici anni. Presto, il coraggio e l'intraprendenza di questa giovanissima ricamatrice hanno fatto i bagagli alla volta dei più rinomati atelier d'alta moda, incrementando man mano l'attività, dal piccolo laboratorio casalingo al coronamento del suo sogno imprenditoriale con la costruzione dell'azienda di oggi. L'arte del tramandare la sapiente tecnica del ricamo di madre in figlia arriva fino ad ora che le redini dell'attività sono gestite da Patrizia Gelosi, che come la madre ogni giorno trasmette il sapere raccolto alla figlia Anna e alle 16 incredibili donne che compongono lo specializzato team dell'azienda. Durante gli oltre quarant’anni di attività, Arte e Ricamo traduce la magia del ricamo fatto a mano combinandolo all’abilità di ideare e realizzare qualsiasi tipo di prodotto grazie all’alto supporto tecnologico dato da innovativi macchinari computerizzati. Un binomio tra artigianalità e innovazione portato avanti offrendo un supporto a 360° attraverso l'intero processo creativo, dallo sviluppo progettuale al prodotto finale. Tramite un servizio di consulenza che spazia dalla realizzazione di ricami fatti a mano o a macchina con finiture applicabili ai settori più disparati: abbigliamento, accessori, calzature, arredamento di interni ed esterni utilizzando qualsiasi tipo di filati, passamanerie, perle, paillettes, incisioni e tagli laser. La creatività è la forza motrice dell'azienda: per questo la maggior parte delle energie e delle risorse vengono investite nella ricerca e nello sviluppo di nuovi materiali, nuove tecniche e creando nuovi disegni sempre al passo con le tendenze. Ma la fase di ricerca non sarebbe possibile se non sprofondando negli oltre 150.000 campioni ricamati su capi e tirelle che compongono insieme a uno storico di 50 anni di riviste di settore, l'archivio in cui questa grande famiglia ha raccolto e depositato l’arte del ricamo, la sua storia e i suoi segreti da trasferire alle generazioni future.
Leggi di più10 dicembre 2016 - 15 gennaio 2017 Rabelais fu invece autore di un’opera geniale, sotto molti aspetti unica nella letteratura di ogni tempo e ancor oggi di un’attualità sconcertante. Con un’esuberanza linguistica ricca di testi comici e di minuzie descrittive e di particolari di situazioni incredibili, narrò, in cinque libri, le gesta di Pantagruèle, figlio del gigante Gargantua, ambientandone le vicissitudini nella Francia del XVI secolo. Nel capitolo VII del libro primo (il secondo per come ci è presentata oggi l’opera intera che non segue l’ordine cronologico di scrittura, bensì l’ordine cronologico delle vicende narrate), dopo molteplici e rocambolesche avventure, ve n’è una che vede Pantagruèle mandato dal padre a studiare a Parigi dove, all’interno dellla biblioteca di Saint Victor trova libri dai suggestivi e particolari titoli. Un vero e proprio catalogo burlesco dove Rabelais si fa beffa della scienza scolastica, teologica e di polemica religiosa: dal « Decreto dell’Università di Parigi contro il lusso degli abiti che indossano le donne di piacere » a « Il Pungolo del vino », da « Tartaret, Sulla maniera di fare la cacca » a « Bricot, Sulle differenze delle zuppe », da « La Ciabatta dell’umiltà » a « Questione molto sottile, sapere se la Chimera, ronzante nel vuoto, può mangiare le seconde intenzioni; la quale fu discussa durante dieci settimane nel concilio di Constanza », da « Il Fichino delle Pulzelle » a « Il Padrenostro della scimmia », « Sessantanove breviari in conserva di sugna », « Il Cacatoio dei Medici », « Lo Spazzacamino dell’Astrologia »… Rabelais stesso frequentò la biblioteca di Saint Victor, realmente esistita e tuttora esistente, durante i suoi studi all’Università di Parigi, prima del 1528, e si ispirò alla stessa per redigere questo catalogo che raccoglie soli titoli immaginari, anche se alcuni si ispirano, o fanno riferimento, ad autori ed opere realmente esistiti. È partendo da questi titoli, e dal desiderio di vederli e di toccarli con mano, che è nata la mostra La bibliothèque imaginaire de Rabelais. Artisti e creativi italiani e stranieri hanno preso a prestito alcuni dei titoli regalando loro, dopo cinque secoli di immaterialità evanescente, un’essenza concreta e tangibile. Ecco quindi il materializzarsi dell’antica ‘bibliothèque’, accompagnato dallo stupore di una nascita di « oggetti » che del libro acclarano il titolo rabelaisiano, vale a dire la sua sostanza. Molti di questi « oggetti » non si fanno sfogliare, molti sì. Tutti si fanno leggere. La mostra è stata ospitata nell’estate 2003 nella Maison de la Devinière (nei pressi di Chinon -F-), casa nella quale si attribuiscono i natali di F. Rabelais, divenuta oggi Museo Rabelais. L’anno successivo è stata ospitata nel suggestivo Château de Lichtenberg in Alsazia -F- per poi approdare in Italia al Museo dell’Illustrazione di Ferrara (2004), alla Fiera del Libro di Torino, al Festival della Filosofia di Mantova (2007) ed in altre prestigiose sedi.
Leggi di più5 novembre 2016 - 4 dicembre 2016 “Quando sono nato Carlo c’era già. Aveva sette mesi più di me, non ricordo di averlo conosciuto una prima volta. Però ricordo chiaramente la prima volta che, per lui, diventai importante. A sette/otto anni, a casa sua nel ripostiglio, una stanza chiusa senza finestre e buia, sotto un vecchio tavolo da cucina, avevamo costruito il nostro rifugo. Ogni giorno aggiungevamo qualche cosa per attrezzarlo. Per procurarci la luce, portai una batteria con una lampadina da bicicletta, Come avevo visto fare da mio fratello con i suoi amici più grandi. Nel buio, sotto il tavolo collegai la batteria alla lampadina con un filo elettrico e...fu la luce! Un’esplosione di luce che sparò di colpo le ombre a raggiera tutt’intorno. Vidi il viso di Carlo trasfigurato dallo stupore, fissare con gioia la piccola fonte di luce. Guardava la mia faccia illuminata dal basso e l’ambiente trasfigurato con gioia, perso in un piacere intenso e inatteso. Fu un attimo. Staccai il contatto, tutto ricadde nel buio baluginante che si vede dopo aver fissato la luce. L’accesi e la spensi più volte, per fargli vedere quanto fosse facile farlo. La lampadina trovò la sua collocazione definitiva sotto al tavolo (lo stesso tavolo diventò il nostro primo piano luminoso, ma questa è un’altra storia...) Da quel momento, come succede tra bimbi, fui da Carlo considerato un tecnico abilissimo... “So che non è giusto rapportare l’opera di un artista a piccoli episodi biografici; si rischia di essere ingiustamente riduttivi, come una mamma che racconti imbarazzanti episodi d’infanzia alla futura moglie del figlio. Eppure nei suoi dipinti sento il richiamo di una condizione di ingenuità priva di malizia, com’è nell’infanzia. Quando anche lo sguardo è vergine e le cose appaiono con lo stupore della prima volta. Sento la meraviglia del suo vedere mescolarsi all’urgenza di fermare l’attimo. Mi sono convinto che Cola, quando prende i pennelli in mano, faccia un esercizio mentale d’approccio all’immagine che vuole dipingere, domandandosi: ”Se la vedessi per la prima volta, come potrebbe essere?“ E penso che nel corso della pittura si ponga la domanda ripetutamente, come se recitasse un mantra empatico che lo mette in contatto con una zona collettiva, dove tutti siamo vissuti nell’infanzia, e da cui attinge la linfa vitale che nutre i suoi lavori. E lì c’è nostalgia, il rimpianto di una condizione perduta. Ma c’è anche la dimostrazione che il contatto non è andato perduto per sempre, che basta un clic mentale per tornare a vedere le cose nella loro forma primaria, che basta un clic per spegnere il rumore di fondo del quotidiano che ci sporca la mente. So che Cola ha trovato il suo interruttore personale, e lo accende e lo spegne, riempendomi di meraviglia.” - G.P. Bianki Carlo Cola è nato a Cesena nel 1957, si è diplomato all’istituto Statale d’Arte di Forlì nel 1975. Dal 1986 insegna arte presso il Centro di Formazione Professionale Dell’ENAIP di Cesena. È nei cataloghi Art’è con stampe e dipinti originali. La sua bellissima casa studio si trova nel centro storico di Forlimpopoli.
Leggi di più4 giugno 2016 - 16 luglio 2016 "Dalle rappresentazioni del cibo nel mondo primitivo dove la funzione era di tipo "magico", propiziatorio rispetto alle attività che si andavano ad intraprendere fino ad arrivare alla Eat Art di Spoerri avviata negli anni '60 come riflessione critica sui principi fondamentali della nutrizione passando per la celeberrima "Canestra di frutta" del Caravaggio, le opere di Arcimboldo fino ad arrivare al rapporto tra cibo e consumismo ben rappresentato da Claes Oldenburg, uno dei protagonisti della Pop Art il rapporto tra arte e cibo è più consolidato di quanto spesso si immagina. Ma sebbene tale rapporto abbia trovato importanti espressioni nella pittura, nella scultura, nei video e fotografie più difficile è riscontrarne un percorso di qualità nel mondo del mosaico e per questo le opere di Silvia Naddeo risultano interessanti ed originali. L'alimentazione è un elemento fortemente variabile: dal nord al sud, da est ad ovest, dal mondo occidentale a quello orientale, dai paesi ricchi a quelli poveri... E condivide con l'arte il fatto di essere un prodotto culturale: come infatti sostiene il sociologo francese Claude Fishler “se non mangiamo tutto quello che è biologicamente commestibile è perché non tutto ciò che si può biologicamente mangiare è culturalmente commestibile". Ma l'alimentazione è anche uno dei settori di traino dell'economia italiana e basta guardare la presenza massiccia sui media dei temi cibo e cucina per rendersi conto della dimensione sociale del fenomeno che comprende programmi tv (compresi i cosiddetti talent show), migliaia di siti tematici gestiti da food blogger e centinaia di testate cartacee. Il cibo e l'alimentazione sono due soggetti privilegiati della produzione artistica di Silvia Naddeo che nella mostra "Trasfigurazioni del gusto" raccoglie diverse opere per invitarci a riflettere sulle diverse abitudini contemporanee di approccio al cibo. Per esempio MyPanino (2013) nasce dall'osservazione della nuova e diffusissima abitudine di fotografare il cibo e condividerne la foto sui social network. Si tratta del fenomeno planetario definito Foodstagram o per i più critici Food Porn (pornografia alimentare) che vede il cibo non più come "energia" per il corpo ma come una moda o una vera e propria ossessione come dimostra una delle ultime tendenze in base alla quale ci si tatua il piatto preferito o addirittura l’insegna del ristorante o del fast food di cui si è clienti. Nell'opera della Naddeo il visitatore può creare il proprio panino con gli ingredienti forniti, rigorosamente musivi, e poi fotografarsi vicino alla sua creazione. Le foto così ottenute saranno caricate in tempo reale sul sito dedicato all'opera (www.mypaninoproject.com). In un'altra opera A cena con (2015) Silvia Naddeo unisce al mosaico la realtà virtuale creata dalla tecnologia Google Cardboard. L'opera si compone di una tavola imbandita e due sedie, una per il visitatore ed una per l'artista cui la cena è dedicata. Le persone che siedono a tavola devono indossare un visore con il quale vengono proiettate in una realtà parallela ricordando come spesso accade l'usanza di avere sempre uno schermo (Tv, smartphone, ecc.) davanti durante il pasto. Per esempio nella prima realizzazione l'artista sceglie come commensale Salvador Dalì e i cibi presenti sulla tavola sono rigorosamente in mosaico e si rifanno a opere o concetti espressi direttamente da lui nei confronti del cibo. Tra le opere realizzate proprio per la mostra All you can eat (2016) è ispirata a quella formula molto diffusa nei paesi anglosassoni che permette di mangiare tutto quello che si vuole e fino a quando si può, pagando un prezzo fisso. In Italia questa formula è molto diffusa nei ristoranti cinesi o giapponesi creando un forte contrasto con la filosofia che sta alla base di queste cucine che con cotture rapide e senza grassi cercano di esaltare freschezza e genuinità degli ingredienti. L'opera Memorie di Romagna (2016) con i suoi cappelletti fatti a mano riflette sul rapporto tra le tradizioni e la grande distribuzione e come queste utilizzino strategie di marketing legate all'immaginario tradizionale per vendere prodotti realizzati in grandi produzioni seriali. Infine l'opera Chilometro 0 (2016) mostra verdure confezionate dentro vaschette di polistirolo invitandoci a riflettere sulla provenienza del cibo che quotidianamente consumiamo. Un viaggio critico ed estetico quindi nel cibo e nelle abitudini quotidiane nei confronti di questo. Un viaggio straordinariamente condotto attraverso un uso contemporaneo ed originale del mosaico. Tra passato e futuro, tradizioni e tecnologia." - Raffaele Quattrone Silvia Naddeo è nata a Roma nel 1984. Nel 2008 si laurea presso l'Accademia di Belle Arti di Ravenna completando la sua formazione con il Biennio Specialistico di Mosaico nel 2010. Nel 2009 partecipa al progetto Summer School on Mosaics Studies and Restauration a Damasco (Siria), organizzato dall'Ambasciata italiana di Damasco, la Cooperazione Italiana allo Sviluppo e il Ministero Italiano degli Affari Esteri. Nel 2012 viene invitata a Mosca per la Residenza d'artista promossa dalla Ismail Akhmetov Foundation. Durante il soggiorno realizza l'opera Transition, che entra a far parte della collezione permanente della stessa fondazione. È vincitrice di diversi premi tra i quali il Premio Internazionale di Scultura Domenico Ghidoni nel 2015, il Premio Starting Point! Nel 2011, il Premio R.A.M. nel 2011 e il Premio Nazionale delle Arti nel 2010. Le sue opere sono state esposte in Italia e all'estero, tra cui la Galleria d'Arte Statale Na Kashirke e la Musivum Gallery di Mosca, il Museo d'Arte della città di Ravenna, la Chapelle Saint-Éman di Chartres (Francia), il Museo Civico Il Cassero per la scultura italiana dell'Ottocento e del Novecento e il Festival Internazionale di Mosaico Contemporaneo.
Leggi di più9 aprile 2016 - 8 maggio 2016 "La prima volta che ho visto un'opera di Oscar Dominguez è stato a Brisighella, qualche anno fa: si trattava di un'installazione diffusa nel paese, e nel paesaggio; una mappa abbastanza misteriosa che aveva come strategia e meccanismo quella di costringere lo spettatore, visitatore consapevole o meno, poco importa, a spostare il punto di vista e camminare, nel tentativo di cercare e incontrare altri segni che gli permettessero di congiungere i punti sparsi e completare così la visione, chiudendo infine circolarmente il percorso. Stelle composte di rami come cristalli perfetti, code e scie filamentose di comete, caleidoscopici disegni di ghiaccio fossile neroverdemarrone, simmetrici e croccanti ammassi polverosi del deserto del Sonora, ammassi ingarbugliati potenzialmente rotolanti ma in stasi, fermi per un momento e come schierati. Dormienti. O magicamente sospesi e irraggianti sopra le nostre teste a sfiorare appena i muri in incastri precisi ed esatti. Mobile, architetture effimere che sembravano il frutto di un dialogo sapiente tra uomo e natura, forma cresciuta e sviluppatasi nel tempo, affinata e stratificata, fatta di innesti, aggiustamenti e intrecci pazienti. La sfera: ora palla, ruota, masso di Sisifo, uovo. Cellula e nucleo. Condensazioni e dialogo tra mondi. Paesaggio quindi, almeno come lo è il paesaggio italiano, nessuna natura selvaggia o sconfinata, la mano dell'uomo sempre (ma forse è l'idea stessa di paesaggio che non può esistere e fare a meno dello sguardo, della finestra o cornice che lo inquadra selezionando e imponendo ordine, anche inconsapevolmente). Poi, salendo gradini e sentieri che si inerpicano sulla collina, lontana, una distesa di piastrelle in varianti bianco rosa biscotto, leggermente sormontate a creare una forma incongruente adagiata nel panorama, a pettinare crinale e vallata come la schiena di un animale corazzato, disteso e affiorante, con andamento orientato di erba mossa dal vento: un crollo morbido, un cretto, eco di terremoto distante su costruzione a secco, fragile castello di carte. Effetto domino; caduta ordinata e guidata. Anamorfosi, cerchio o ellisse, a seconda del nostro punto di osservazione. I materiali niente affatto tecnologici o, per certi versi, i più tecnologici possibile, economici resistenti, superanti i tempi, anzi, forgiati dal tempo, e dall'uomo; materie sempre antiche, tramandate e toccate da una processione e sequenza ininterrotta di infinite mani e pensieri che li hanno plasmati e che da questi materiali sono stati plasmati a loro volta: legno, ferro, terra, pietra. Un alfabeto. Un condensato densissimo di storie e memorie. Il fuoco a piegarle, trasformarle e riplasmarle ancora. Una sapienza artigiana che affiora e innerva queste sculture, sempre, e che sembra in grado di alleggerire la fatica della scultura. Poi anfore e altre forme rotonde, il concavo e il convesso, curve di terra atte a contenere. La superficie porosa, piccole screpolature calde e sensuali al tatto, fiumi e vallate, montagne e canyon, geografie sulla pelle delle cose. L'imperfezione impercettibile del respiro. Il caldo e il freddo. L'innesto del ferro e legno come a permettere di cucire e tenere insieme mondi e regni, a costruire strumenti che possono, talvolta, sembrare aver perso una funzione precisa, ma questa è forse solo una volontà dell'autore di non descrivere e chiudere le infinite narrazioni e storie che queste materie e tecniche portano con se, suggerendo ed evocando al posto del troppo dire: vasi e commerci e scambi, navi, olio e vino, spezie; lance e dardi, fulmini, bilance e meridiane, acqua raccolta, vele, simboli quasi muti e silenti. Pronti a risvegliarsi nell'oscillazione e movimento silenzioso. Lentezza che costringe a rallentare il battito predisponendoci alla contemplazione. Un giardino. La gravità e il peso duraturo delle cose insieme alla leggerezza sottile che tende al cielo innalzando la verticale, segno divino sempre. E poi, come in un improbabile ma efficace restauro, il legno e il ferro a colmare e saldare le ferite della terra, a contenere la spaccatura. E ora, procedendo per contrasti e visioni, le strutture aeree, sospese e galleggianti fatte con le potature di vite o altri sarmenti, materia prima della campagna romagnola, terra d'adozione di Oscar, paesaggio questo decisamente più docile e addomesticato. Quasi un'industria talvolta. Un tentativo di restituzione forse, questo può fare la scultura mettendosi in ascolto dei materiali. Così, nascono giganteschi nidi, affascinanti ragnatele cresciute in una notte, complessi letti nuziali o rituali di corteggiamento di uccelli sconosciuti, segnali quasi visibili solo da chi è in volo, segnali; forme perfette circolari fatte di canne di fiume a stupire il paesaggio come un fiore meraviglioso, e al paesaggio ritornare accasciandosi di vecchiaia e implodendo. Vortici, tornadi e mulinelli che nascono precisi e sottili da terra e che irradiano sprizzando energia come disegni barocchi, ritorti nell'aria, come quello realizzato a Rimini per il Museo della Città. Anfore ancora, sparse sull'argine del fiume, nei campi o nei giardini; nidi sulle rovine e archeologie, trame sotto le arcate dei ponti, o sospese ed esplose in torri, grotte e bastioni. Tutti questi sono per me disegni e i rametti di cui sono composti funzionano come le linee che tracciamo sulla carta, funzionanti come primo orientamento e occupazione dello spazio immenso e infinito, una mappa. Poi, lentamente, si addensa e infittisce il reticolo, cresce, si ingrossa e inspessisce la trama come un ordito inestricabile, intrecciando andamenti e forze, calibrando e controllando tensioni interne, permettendo incastri e sovrapposizioni, funzionali e belle a vedersi come tessuti, tendini e muscoli. Un disegno effimero e precario, con l'aria e i venti che circolano dentro, e la luce anche che si infila nei buchetti e sfarfalla in scintille, rifrazioni e luccicanze, esagoni e prismi luminosi, e ci si può anche stare sotto come un tetto di capanna bambinesco, e sentire da lì le foglie muoversi e frusciare. L'equilibrio sempre, che è la sfida impossibile dell'uomo, la sua tensione verticale eretta, a vincere e contrastare la forza di gravità. Architettura animista. Albero. Infine, lo slittare, confondersi e imitarsi di queste materie, rami di ceramica perfetti e bianchi come ossa o legni scoloriti del sole, rami che fanno le ombre belle e si dispongono magicamente a triangolo rovesciato, quinta aerea il cui vertice sembra nascere da un grande piatto che è offerta e dono, ma anche ventre che accoglie e offre riparo. E da questo centro o punto di fuga densissimo l'aprirsi e dilatarsi, il crescere arboreo di rami e radici. La conquista dello spazio. Le due forze, una centrifuga e una centripeta sempre presenti, a bilanciarsi, a spostare di continuo e senza sosta il nostro punto di vista, ora concentrati su quella sorta di occhio del ciclone da cui sembra nascere o convergere tutto, ora persi a inseguire con gli occhi il ramificarsi ed esplodere della forma che si apre fino a diventare mondo, frammento indistinto, particella o granello di polvere trasportato lontano da ventosità e correnti. A dissolversi ancora. Il segno della mano lasciato nel paesaggio grazie a una scultura che molto spesso tende a confondersi o strizzare l'occhio all'architettura, prima traccia e impronta; e un paesaggio, o meglio un'idea di natura, che viceversa entra e trasforma gli spazi chiusi e le stanze irrorando linfa, sangue, respiro e vita. Una frattura drammatica tra noi e la natura che si cerca di sanare affidandosi all'intervento artistico, tentativo di restituzione e preghiera. Solitario e vitale. Quasi animista. É questo che avviene in questo nuovo progetto di Oscar e la grande foto che ci accoglie già in strada, una apacheta – un cumulo di sassi e pietre, rudimentale piramide - di Santa Maria nel nord-ovest dell'Argentina, funziona davvero come una sorta di portale che ci permette di accedere al racconto, guidando e accompagnando i nostri passi, introducendoci in un altro mondo, rispondente ad altre regole e tempi. Al centro della stanza un grande cerchio di terra copre il pavimento, terra umida che si asciugherà, crepando e disegnandosi nei giorni di spaccature e rughe a solcarla e attraversarla come paesaggio e landa. Al centro una pietra, quel sasso che i viaggiatori lasciano a testimonianza del loro passaggio, sul cumulo dell'apacheta, a creare una connessione con chi è stato lì prima di loro e con chi è ancora a venire. Passaggio silente e stratificato segreto di memorie, labile catena. Dalla pietra, leggermente rialzata dallo strato di terra, parte un elemento verticale, perpendicolare, un legno brunito e appuntito alle estremità, lievemente irregolare e perfetto al tempo stesso, scagliato dal cielo o lasciato magicamente dall'uomo, albero, scala, segno sospeso, simbolo, collegamento e connessione tra mondi che mi ha fatto pensare anche, impropriamente me ne rendo conto, al legno con cui Ulisse acceca il gigante Polifemo. Ma non ci sono armi qui, ma riti e canti, soste e attese contemplative (a dire il vero gli europei, spaventati da questi accumuli, costruzioni mute e misteriose, hanno a volte eretto al centro di esse una croce). L'effetto di questa installazione è di grande e precario equilibrio, un equilibrio incantato di forme e materiali, il maschile e il femminile, la verticale e l'orizzontale, il legno, la pietra e la terra (la lancia annerita dal fuoco ha la misura del raggio del cerchio tracciato a terra: ancora il disegno e la necessità di imporre ordine matematico alle cose). Lo spazio sconfinato e praticamente senza punti di riferimento, visto precedentemente nella fotografia, la costruzione dell'uomo unico approdo momentaneo, sono portati dentro alla galleria grazie a un artificio o capogiro, o slittamento, perché proprio grazie alla finzione dell'arte possiamo accedere a un altro luogo o dimensione, a misurare con altri parametri i nostri passi e gli sguardi. E, a sottolineare questo bisogno di un dialogo non superficiale, capace di innescare un movimento nello spettatore e favorire un incontro, ecco un lungo tavolo su cui sono disposte delle ciotole, manufatti molto semplici e primitivi, quasi il calco dell'incavo della mano dell'artista, ciotole impronte deformate ulteriormente da ripetute cotture a creare una variante casuale di forme e colori, fatta di irregolarità e imperfezioni. Sono offerte queste, non solo nel senso metaforico di un piatto o di un bicchiere o di un contenitore generico disposto su di un tavolo, che significa sempre comunione e condivisione, anche solo per un momento, ma lo sono anche concretamente perché Oscar ha previsto e chiede che questi manufatti possano essere presi dal visitatore e portati via con sé: in cambio di un qualsiasi altro oggetto lasciato al suo posto sul tavolo. Molte e complesse le implicazioni: l'interattività, parola che sembra stonare assai qui, il dono e lo scambio, un dialogo a distanza e tutto sommato imprevedibile, l'offerta che spiazza; e anche il cambiare fisicamente della scultura e sequenza delle cose sul tavolo, con il modificarsi degli oggetti e delle storie che questi oggetti trattengono con sé, e con le nuove storie che si potrebbero creare da queste nuove e imprevedibili relazioni tra le cose e i nomi disposti sul tavolo. Un desiderio d'infinito, dio delle piccole cose." - Massimiliano Fabbri Oscar Dominguez nasce a Tucuman, in Argentina, nel 1970. Dopo la formazione accademica si trasferisce nel 1999 a Faenza (Ra), dove vive e lavora. Le sue sculture si arricchiscono della luce e del calore della terra, sono povere nei materiali ma sanno sprigionare forza ed energia, passione e vigore. Ogni opera racconta un percorso, una ricerca nella storia del mito, per giungere a raccontare dell’uomo, della natura, della vita in uno spazio assolutamente atemporale. Tra le principali esposizioni e partecipazioni sono da segnalare: Biennale Internazionale del Cairo (Egitto, 2000), Biennale Internazionale del Cairo (Egitto, 2002), Rojo Tierra personale al Circolo degli Artisti (Faenza, 2003), Memoria del fuego a cura di J.Ruiz de Infante (Bagnacavallo, 2004), Donde pasa el rio personale (Palazzuolo sul Senio, 2005), Galleria Gagliardi personale (Toscana, 2006), Bocas del tiempo a cura di Claudia Casali (Brisighella, 2007), Demora a cura di Josune Ruiz de Infante (Castrocaro, 2009), Il silenzio del grano ex Circolo degli artisti (Faenza, 2010), Pedes in terra ad sidera visus a cura di Claudia Casali (Faenza, 2011), Los nacimientos Amerongen Castel (Olanda, 2011.), Fiera Contemporanea (Forlì, 2012-2017)
Leggi di più27 febbraio 2016 - 28 marzo 2016 "Scrive Valerio Magrelli, a proposito delle opere di Oliana Spazzoli: “Sia sulle pagine già stampate e rilegate dei suoi ‘libri d’artista’, sia sui brandelli di tela strappata, la tinta non sembra mai depositarsi. Non si assiste, cioè, ad una sovrapposizione del colore su di un sostrato. Piuttosto, abbiamo a che fare con una penetrazione, un intridersi, un farsi materia del colore stesso. Insomma, l’intervento cromatico fa tutt’uno con la fibra di cellulosa o di tessuto. Se lo dovessi dire in un’immagine, azzarderei che questa pittura ‘suona’ le corde del supporto. Penso a una specie di curiosa ‘chitarra del colore’ - e certo non posso fare a meno di ricordare una famosa poesia di Wallace Stevens, L’uomo dalla chitarra azzurra, di cui riporto la prima parte: L’uomo chinato sulla sua chitarra Nella verde giornata. Forse un sarto. Gli dissero: “Sulla chitarra azzurra Tu non suoni le cose come sono”. Egli disse: “Le cose come sono Si cambiano sulla chitarra azzurra”. Risposero: “Ma tu devi suonare Un’aria che sia noi e ci trascenda, Un’aria sopra la chitarra azzurra Delle cose così come esse sono”. A leggere bene la straordinaria poesia di Stevens, è facile dimenticarsi che l’uomo chino sulla sua chitarra, ancor prima che musico, è “forse un sarto”. Immaginiamolo: un uomo che col suo strumento cuce musica. Oppure, un uomo che con ago e filo veste il mondo di note inebrianti, e lo drappeggia, con “un’aria che sia noi e ci trascenda.” Ecco, sembra intuire Magrelli, cosa riesce alla Spazzoli. Crea al mondo un abito fatto su misura, di colore, e lo trascende, quel mondo, in un tentativo di arrivare alle cose “così come esse sono”. Perché il colore per la Spazzoli è elemento primigenio, che l’universo trasuda, che infonde e impregna tutto l’Esistente. Elemento in cui ci muoviamo, che respiriamo. Anzi, più che elemento primigenio penso ai colori di Oliana come ad una dimensione originaria dell’universo, prossima allo spaziotempo, che ondula, si curva e avvolge nel suo eterno e sconfinato dispiegarsi… Leggevo recentemente alcune pagine di un libro monumentale dello scrittore d’arte John Berger, intitolato Portraits (“Ritratti”). In uno di questi suoi ritratti di artisti che hanno fatto la storia dell’arte occidentale, Berger parla di Monet, e ricorda come l’artista francese ambisse a dipingere non le cose in sé, ma l’aria che le toccava, che le avviluppa. Monet, scrive Berger, parlava spesso di voler cogliere una “istantaneità” delle cose. E l’aria, poiché parte “di una sostanza indivisibile che si estende infinitamente, trasforma questa istantaneità in un’eternità”. Ecco, credo, l’ambizione ultima di Oliana Spazzoli. Sostituite alla parola “aria” il termine “colore”, e capite l’eternità che l’artista forlivese vorrebbe riflettere, e magari fissare, sulle sue tele. Perdonate il gioco di parole, ma capirete quell’aria che siamo noi, e ci trascende." - Anthony Molino Nata a Forlì nel 1943, Oliana Spazzoli ha frequentato l'Accademia di Belle Arti di Ravenna. Artisticamente si è formata con alcuni maestri di pittura e di scultura operanti in Romagna, tra cui Umberto Folli, Vittorio D'Augusta, e Gianantonio Bucci. A partire dai primi anni '80 tiene numerose mostre in tutta Italia: Milano, Roma, Venezia, Catania, Forlì, e Bologna. Numerose le sue partecipazioni con designer e architetti, ed importanti le fertili collaborazioni con poeti italiani e stranieri per la realizzazione di Libri d'Artista, contando tra i suoi interlocutori Alda Merini, Roberto Dossi, Kenneth White, Maddalena Bolis, Vanessa Sorrentino, Nicoletta Conti e Valerio Magrelli.
Leggi di più19 dicembre 2015 - 24 gennaio 2016 "L’incontro con le sculture di Alessandro Turoni è come il primo amore. Tac. Potrebbe essere il gigantesco e meraviglioso giaguaro in tessuto, oppure l’elefante meccanico, piccolo e perfetto in ogni dettaglio, o magari uno dei topini, di cui non ti stanchi mai di guardare l’interno, come se ogni volta fosse possibile scoprire nuovi dettagli. Non sai di cosa, ma sicuramente di qualcosa ti innamorerai. Entrare in questo mondo è come poter approfittare di un dono: quelle opere sembrano lì per te, ma nello stesso tempo ti sovrastano e ti fanno sentire fuori posto. Vorresti non perdere quello che stai osservando, come fosse possibile, guardando con attenzione, impossessarsene. Ma poi il senso di disagio riempie la testa. Lo spazio che l’uomo ha nelle opere di Turoni, se non è nullo, è quello di contorno a una natura deformata, trasformata da pezzi, elementi, materiali diversi. Tutto viene ricostruito, rimescolato e prende nuove forme. E’ una natura violata che schiaccia l’elemento umano, trasformato in un piccolo dettaglio. Turoni, come uno scienziato, indaga la vita spezzando, ricomponendo e ricreando, facendo nascere ibridi, nuove evoluzioni delle specie, piccoli mostri che sembrano venirti a bussare sulla spalla, come a chiederti qual è il tuo posto quì. Perché loro un posto ce l’hanno e sei tu a doverti reinventare. L’ispirazione per la nuova mostra nasce da un naufragio in mezzo a ghiacci aguzzi, ammassati l’uno sull’altro a formare una montagna fredda e bianca. Pezzi di legno, schegge, distruzione e immobilismo ci accompagnano in uno stato di smarrimento dove l’uomo è assente, di lui non rimane che una creazione, una barca che sta immancabilmente affondando, mentre la natura incombe, sovrasta e mangia. Ma lo fa con delicatezza, lasciandoci confusi. Lo spunto é “Il mare di ghiaccio” di Caspar David Friedrich, che con il suo bianco silenzioso lascia solo intendere il dramma appena avvenuto. E come in questo dipinto dell’’800, anche nel lavoro di Turoni l’uomo è un’assenza che si rintraccia negli ambienti da cui è stato eliminato. La montagna di ghiaccio si trasforma in legno, é metafora di una civiltà alla deriva e nasconde pezzi di vita quotidiana – una poltroncina distrutta, una credenza recuperata, un parquet – da cui siamo stati cacciati, perché padroni sono gli ibridi in fil di ferro e resina, le bestie in vitro o quei piccoli uomini che scompaiono di fronte a giganteschi tentacoli in un barattolo. E quello che puoi fare é restare lì a guardare, lasciarti trascinare in un vortice di inquietudine e inadeguatezza perché ad avere il sopravvento é la natura e ti ritrovi piccolo come gli omini che stai osservando." - Lisa Tormena Alessandro Turoni nasce a Forlì nel 1986. Incomincia la propria formazione artistica presso l’Istituto Statale d’Arte dove inizia ad apprendere le tecniche plastiche e pittoriche. Sono gli anni del primo approccio al mondo dell’arte, della materia, dei colori e della continua ricerca di nuove modalità espressive: fotografia, collage e pittura sfociano in una sua prima mostra di dipinti a Forlì nel 2007. Come studente dell’Accademia di Belle Arti di Bologna, collabora all’allestimento degli spettacoli del teatro Bonci di Cesena da prima lavorando come attrezzista per poi firmare, dal 2008 al 2010, tutte le scenografie allestite dall’Accademia al Bonci. Si laurea con 110 e lode, corso di scenografia per il Melodramma, vola in Algeria seguendo la scenografa Lucia Goj per la preparazione della “Parata Pan Africana” ed assiste il maestro Edoardo Sanchi. Vince il concorso che lo qualifica per la progettazione in chiave moderna del “Macbeth” di Shakespeare all’Arena di Verona. L’amore per la scultura nasce negli anni seguenti, è il periodo delle creazioni di sculture zoomorfe, della collaborazione con L’oro dei Farlocchi, delle esposizioni a Zurigo e al Salone del Mobile di Milano. Ad oggi insegna modellazione digitale all’Accademia Belle Arti di Bologna e prosegue la sua ricerca artistica personale.
Leggi di più7 novembre 2015 - 13 dicembre 2015 "La ragione è la caratteristica esclusiva dell’uomo,ma è anche la sua ineludibile condanna. L’arte non è un teorema della vita dimostrabile dal dettato di un’ipotesi che giunga ad avvalorare una tesi, ma è un progressivo disvelamento dell’inconscio che transita attraverso emozione e ragione. Non è sufficiente un approccio razionale della percezione istintiva o meditata per addivenire al valore trascendente dell’opera d’arte; è altresì necessaria una componente sacrale ed irrazionale che induca al mistero della creazione.Questa, infatti, contiene un aspetto sempre ossimorico, duale ed ambivalente, ma soprattutto metaforico e simbolico, capace di far emergere continue domande alle apparenti risposte enunciate dall’opera. In quest’ottica, suggestioni allegoriche e metafisiche informano, sovente, le creazioni di numerosi artisti della nostra contemporaneità, avvertite, tuttavia, con una sensibilità percettiva in grado di risuonare vaghi echi del passato sulle tele o sulle tavole del presente. Su tale linea si svolge l’azione artistica di Enrico Versari, autore di un’arte a profondità filosofica che sul segno e sul disegno basa la fondante speculazione di un’operazione che nasce dalle vibrazioni del pensiero per approdare all’anima del significante e del significato. Su basi elaborate a collage con inclusioni di pagine di giornale e di fogli di carte geografiche, Versari interviene con pastello ed inchiostro per indurre lo sguardo in un universo “alchemico” che sul simbolo incentra la valenza del messaggio iconico. Anche se ultimamente egli introduce indicative ed esemplari risoluzioni a tempera, l’idea nodale conserva quale assoluto fondamento la complessità di un segno che diviene disegno compiuto, perfetto nei transiti luministici e monotonali, armonico per composizione oggettiva e per struttura d’insieme. Ne scaturisce un’euritmia globale di forma e contenuto che varca meri orizzonti “purovisibilisti” per incedere sulle vie della verità interiore, ossia di un’etica che si tramuta in un’estetica del “bello”, simbolo veridico del bene morale per Kant.Le combinazioni di molteplici elementi oggettuali, scelti per intrinseco messaggio, oltrepassano il consueto dialogo percettivo della “natura morta o silente” e ascendono all’apice di suggerimenti sospensivi ed ermeneutici che rammentano le più recenti teorie filosofiche mitteleuropee. È l’esistente immoto, senza tempo e senza spazio, che affiora dalle opere; è una malinconia dell’anima che scaturisce ineluttabile con ammonimenti sulla gravità delle problematiche esistenziali e multiculturali attuali. L’artista, allora, costruisce un nuovo ipotetico equilibrio geografico, dove i confini politici perdono di valore e le odierne realtà statali vengono proiettate verso la condizione universale di un pianeta senza frontiere. Alcune opere recenti si presentano, pertanto, con l’eloquenza di un dono vitale, simboleggiato dall’elemento acqua, già principio fondante della primigenia teoria di Talete. La figura femminile, portatrice eletta d’esistenza, porge la preziosa offerta all’umanità e diviene emblema di positive aspirazioni di pace.L’analisi lessicale dell’arte di Versari rivela uno stile assai personale, riconoscibile per purezza del divenire tonale e disegnativo e per encomiabile nobiltà figurativa e geometrica. Se le creazioni possono evocare echi della profonda raffinatezza semantica ed iconografica di artisti quali Casorati, Morandi o Savinio, esse mantengono, tuttavia, un’originalità e un’autenticità di trasparenze e di riflessi luministici, di andamenti segnici e strutturali che pongono l’artista alle soglie di un futuro indubbiamente fecondo di significanze. L’autore, infatti, già pienamente consapevole dei segreti tecnici disegnativi e pittorici, arricchisce lo spessore del suo talento creativo con ricerche e sperimentazioni costanti, nonché con l’apporto di una cultura umanistica assolutamente indispensabile per un’arte che si svolge su una pura e prevalente speculazione del pensiero. Ma si tratta anche di un’espressione artistica intrisa di quella vivida passione che, per Hegel, è base sostanziale di grandezza creativa.Se il tracciato segnico e disegnativo resta la sigla fondante e preziosa dell’arte di Versari, su di esso, a rimembranza rinascimentale, l’autore porge il pathos della poesia intimista, sollecitata da realtà pittoriche che accendono spazi di fantasia e di sogno. Nell’esaminare le opere di Enrico Versari sovviene, quindi, un’acuta considerazione di Schopenhauer, in cui il sommo filosofo ammonisce di avvicinarsi all’opera d’arte con lo stesso comportamento tenuto davanti ad un principe e, cioè, con l’accortezza di non prendere mai la parola per primi, per non rischiare di sentire soltanto la propria voce. Invero, nell’osservare un’opera, bisogna sempre ascoltare la sua “voce” profonda e, in silenzio, muovere l’emozione a commovente vibrazione interiore." - Enzo Dall’Ara Enrico Versari nasce a Faenza il 18 Agosto del 1975,dopo gli studi superiori e le prime esperienze artistiche si iscrive all’ International School of Design di Modena, diplomandosi con un progetto che vincerà il primo premio al Concorso Internazionale Cosmopak di Bologna nel 1996. Nel 1998 si iscrive alla Facoltà di Filosofia a Firenze laureandosi in Estetica nel 2003 con il Filosofo Sergio Givone, discutendo una tesi che analizza i rapporti tra disegno industriale e avanguardie artistiche. Parallelamente approfondisce lo studio del disegno e la storia dell’arte; è del 1999 la sua prima mostra. Attualmente Versari è insegnante di Teoria Della Percezione all’ università del design ISIA di Faenza e collabora con riviste e gallerie d’arte.
Leggi di piùIl progetto viene concepito e sviluppato nel 2015 dall’Associazione Culturale Regnoli41 per prendere parte al bando per idee pubblicato dalla Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì per la co-gestione dello spazio espositivo al piano terra del suo Palazzo di Residenza. Lo stesso – risultato poi vincitore - prevede la gestione dello spazio per tre anni consecutivi (dall’autunno del 2015 all’estate del 2018) realizzando cinque mostre annue da novembre a luglio con tema comune "La materia", con un pieno coinvolgimento di artisti del territorio forlivese e della Romagna. Ciascuna esposizione d'arte viene sempre amplificata da una serie di eventi collaterali con contenuti legati al mondo dell'artigianato e della manifattura artistica. Questo tipo di esperienze hanno consentito di coinvolgere gli studenti delle scuole secondarie della città, organizzare incontri con imprenditori del territorio, interfacciarsi con altre realtà associative con lo scopo di creare un circuito di conoscenze di creatività artistica artigianale e locale Ogni contatto, evento, attività viene condiviso con la Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì.
Leggi di piùAssociazione Culturale Regnoli41 nasce a Dicembre 2011 dall'obiettivo comune di un gruppo di cittadini forlivesi "volontari e volenterosi" di riqualificare Via G.Regnoli, una delle principali strade del centro storico fino ad allora dimenticata e lasciata al degrado urbano. Da sette anni l’associazione opera per rendere il quartiere un ambiente attivo e solidale, organizzando eventi artistici e culturali. Principio cardine é da sempre promuovere progetti di interesse per l'intera cittadinanza nell'ambito delle arti, dell'artigianato artistico e del buon vivere per rendere lo spazio urbano un polo culturale, d’incontro e d’animazione. Elenco indicativo di iniziative e progetti organizzati: dal 2013 Progetto artistico “Galleria a Cielo Aperto”, Forlì dal 2013 Evento sociale "Notte Verde", Forlì dal 2013 Evento sociale "Cena a Impiatto Zero", Forlì dal 2014 Concorso fotografico “Uno scatto per Regnoli”, Forlì dal 2015 Progetto espositivo "ArtealMonte", Forlì [management artistico organizzativo delle mostre allestite nelle sale inferiori di Palazzo Monte di Pietà, Corso Garibaldi 37 Forlì. Il progetto, con la supervisione della Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì, prevede la gestione per tre anni consecutivi dello spazio espositivo mantenendo come tema cardine "La materia".] Elenco indicativo di collaborazioni artistiche e culturali con altre associazioni: “Spazio agli spazi”, “Slow Food condotta Forlì”, “Forlì città aperta”, “Italia nostra”, “LAV”, ”Social Hub Forlì”, “Associazione Forcine”, “Matite Giovanotte”, “L'urlo”, “Romagna Creative District”, “Fanzinoteca”, “Spazi indecisi”, “Ass. La Ghironda – Domus Coop”, “Nati per leggere”, il “Centro famiglie di Forlì”, “La bottega dello psicologo”, “Collettivo Cesena”, “Tank Sviluppo Immagine”, “Club Soropmist Forlì”, “Club Rotary Tre Valli”, la rivista “Questa città”, il Quotidiano La Voce, la Parrocchia di San Mercuriale, la cooperativa “Casa del cuculo”, l'Associazione culturale “Sovraesposti” (videomaker del docufilm “Forum living” a documento dell'attività svolta da Regnoli 41 a favore del centro storico forlivese).
Leggi di piùProgetto artistico di Associazione Promozione Culturale Regnoli41 Creatività, arte, buon vivere, lungo la via, alle pareti e sui marciapiedi di Via G. Regnoli Forlì Ricominciare da una strada nel cuore storico della città per ritrovarsi, fare scambi e scoprire insieme che la bellezza di una città passa anche attraverso il "buon vicinato". Artisti chiamati ad operare direttamente tra i residenti, mescolati a studenti e commercianti, tutti alla ricerca di nuova forza che dia continuità al cambiamento, che stimoli al coinvolgimento diretto e alla partecipazione attiva dei cittadini. Nel 2011 questa sfida spicca il volo grazie a Associazione Promozione Culturale "Regnoli 41", lmotore del progetto di rivitalizzazione della strada. Come l'imprenditore forlivese Giuseppe Verzocchi tra il 1949 e il 1950 scelse di celebrare il lavoro con una collezione di opere (donate nel 1961 alla città) realizzata grazie alla collaborazione dei più rappresentativi artisti italiani del suo tempo, così Via Regnoli desidera rilanciare in modo attuale una raccolta di creazioni artistiche inedite che contribuiscana ad animare la fisionomia della via cittadina in maniera permanente e nel corso degli anni a far germogliare iniziative, occasioni di festa, conferenze, cineforum, concerti.
Leggi di piùConcorso Fotografico di Associazione Promozione Culturale Regnoli41 Vincitore 1° 2014 edizione Filippo Venturi e René Ruisi (ex equo) Vincitore 2° 2015 edizione George Mattei Vincitore 3° 2016 edizione Enzo Bresciani Vincitore 4° 2017 edizione Renzo Zilio Tema del concorso fotografico é uno scatto che immortali un’opera, un particolare, un angolo, uno scorcio in qualsiasi ora del giorno e della notte di Via G. Regnoli Forlì, luogo d'Arte, d'Artigianato, di Buon Vivere. REGOLAMENTO - Il concorso è aperto a tutti senza limiti di età. - Non è richiesta alcuna quota di partecipazione - Ogni partecipante può inviare una sola fotografia, corredata di Nome Cognome, Età, Residenza, Titolo dell'opera - Le foto devono essere inviate dall’indirizzo mail fotodigitaldiscountforli@virgilio.it oppure consegnate presso il negozio FOTO DIGITAL DISCOUNT di MARIO SACCONE in Via G. Regnoli 46 Forlì. - La commissione, a conclusione dell'evento, declamerà la foto vincitrice tra quelle ricevute, riservandosi di invalidate eventuali fotografie ritenute offensive o non inerenti al tema proposto. - La foto del primo classificato sarà stampata a spese dell’associazione su forex ed esposta in via G. Regnoli Forlì insieme alle altre creazioni d'arte già installate, divenendo a pieno titolo parte integrante di 'Galleria a cielo aperto'. - La partecipazione è subordinata all’obbligo di accettazione del Regolamento, nella sua completezza e senza riserve, e alle istruzioni in esso contenute. La consegna della fotografia (via mail o di persona) costituisce dichiarazione di accettazione del presente regolamento. - Nell’ambito dell’attività di promozione e comunicazione dell’evento, l’associazione si riserva di utilizzare immagini e nomi dei partecipanti in rapporto alle esigenze del materiale informativo e pubblicitario, dei social network e della divulgazione alla stampa e ai mass media. - L’associazione, pubblicando le foto su facebook, non si assume la responsabilità di riproduzioni fotografiche o di usi da parte di terzi del pubblico.
Leggi di piùLo spazio espositivo si trova al piano terra del cinquecentesco Palazzo del Monte di Pietà di Forlì in corso Garibaldi 37, nel tratto di strada che unisce le due piazze medievali del Municipio (piazza Saffi) e della Cattedrale (piazza del Duomo). Il restauro e la rifunzionalizzazione del Palazzo, acquistato dalla Fondazione alla fine del 1999, sono state ultimate nell’estate del 2007 e il 29 settembre dello stesso anno é stato ufficialmente riaperto alla fruizione pubblica. Lo spazio espositivo pari a 166,39 mq è sostanzialmente suddiviso in due corpi principali: l' ampia sala centrale che misura circa 100 metri quadrati e la manica alla sua destra che misura circa 50 metri quadrati. In entrambe le sale troviamo superfici murarie con gli originali laterizi a vista, e anche un affresco. La Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì rappresenta la continuazione ideale e storica della Cassa dei Risparmi di Forlì, la prima nata in Romagna, costituita su iniziativa del Gonfaloniere in carica, il Conte Albicini, con l’adesione del Cardinale Legato Nicola Grimaldi e di esponenti del patriziato e del clero, di professionisti, possidenti e commercianti che appoggiarono il progetto andando a costituire le “cento private Persone già riconosciute e approvate dal Governo” che sottoscrissero il capitale sociale iniziale, con lo scopo precipuo di raccogliere il risparmio del lavoro famigliare, di promuovere lo spirito di previdenza delle classi più umili e di incoraggiare le iniziative economiche allora nascenti. Istituita con Rescritto Pontificio di Papa Gregorio XVI del 3 giugno 1839, aprì al pubblico l’11 agosto 1839 in Corso Garibaldi, nel Palazzo che fu sede dell’ex Monte di Pietà e che oggi ospita la Fondazione. Riconosciuta come corpo morale con Regio Decreto 17 marzo 1861, nel 1928, aderì assieme alle 19 consorelle della regione, alla Federazione delle Casse di Risparmio dell’Emilia-Romagna. Con atto pubblico del 22 giugno 1992, in attuazione del progetto di ristrutturazione approvato con decreto del Ministro del Tesoro n. 435745 del 2 giugno 1992, La fondazione ha scorporato la propria azienda bancaria conferita alla Cassa dei Risparmi di Forlì S.p.A. La Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì, nel rispetto della normativa vigente, persegue l’obiettivo di sostenere, con redditi che derivano dal suo patrimonio, iniziative rivolte alla promozione dello sviluppo sociale, culturale ed economico del territorio storico di intervento, nelle forme e nei modi previsti dallo statuto e nel rispetto della propria tradizione storica, a questo scopo persegue pertanto l’obiettivo di conservare, aumentare e amministrare il proprio patrimonio, formatosi grazie al lavoro della comunità forlivese e all’impegno, all’abnegazione e alla fedeltà di tutti quanti, uomini e donne, hanno prestato la propria attività nell’originario ente creditizio.
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